Nel 1914, malgrado i suoi 38 anni, Henry de Jouvenel, direttore del giornale Le Matin e futuro uomo politico, viene spedito a Verdun. I tedeschi stanno marciando su Parigi, alla fine di maggio sono a sessanta miglia dalla città. In una lettera, Colette gli racconta di aver creato, nella loro casa di rue Cortambert, il phalanstère del XVI arrondissement, una specie di comune con altre donne. Lei si incarica delle pulizie, l’attrice Musidora va a fare la spesa, Marguerite Moreno sta ai fornelli e lava i piatti. Tutte e tre vivono di biscotti, di verdure e di sardine. Di tanto in tanto, Annie le Pène manda una pollastrella e dei tartufi. Si tengono compagnia, si rincuorano a vicenda e mettono in comune le loro modeste risorse materiali. Il momento del pasto risolleva l’umore e fa bene allo spirito, dopo le discussioni assurde e irrazionali che fanno intanto che lo preparano. “Mentre lavoriamo insieme in cucina – scrive Colette - non possiamo impedirci di parlare del destino dei nostri soldati al fronte e del futuro di Parigi.” La situazione si aggrava di giorno in giorno, il combustibile scarseggia, si compra qua e là qualche chilo di carbone, quando si riesce a trovarlo. Altrimenti, quando non se ne può più di patire il freddo, si bruciano le cassette della frutta, i manici delle scope, gli scaffali, il divano…
A capodanno del 1915 Colette si reca in Argonne con alcuni cesti di regali. “Per i soldati? No, i soldati hanno tutto il necessario e anche di più. A Natale hanno avuto diecimila oche, le arance, il cioccolato, il vino… L’esercito è ben vettovagliato e nutre i villaggi vicini.” Lei porta invece le bambole, le biglie, le arance e i sigari di cioccolato per i bambini, con i quali, dopo la distribuzione, mangia il pranzo nei locali della scuola. Il menu prevede le sardine, il pesce cappone con il pomodoro, il prosciutto, i cioccolatini al latte e le arance.
Un giorno decide di andare a trovare il marito a Verdun. È proibito, ma lei si procura dei documenti falsi e viaggia di notte su un treno oscurato. Passa le giornate nascosta in casa come una clandestina, a dipingere acquerelli e ad attendere il marito. Esce con il buio, mentre sparano i cannoni, e va sotto i ponti a guardare cadere le bombe. Rientra al mattino, attraverso i crateri lasciati dalle esplosioni. “Ventitré bombe una settimana fa, trentuno ieri…- scrive a un’amica - Sono una prigioniera viziata, rimpinzata di cibo, colma di comfort e di bombe aeree.” A capodanno pranza in un edificio sventrato in compagnia di un gruppo di ufficiali che visitano il fronte. In sottofondo, si sente il rumore dei cannoni. “Ci si abitua velocemente alla guerra” dice.
A Verdun tutti i commercianti si sono messi a vendere generi alimentari: il cartolaio vende le salsicce, la ricamatrice vende le patate, il commerciante di pianoforti vende le sardine e lo sgombro in scatole ben impilate sopra gli strumenti. Il burro è una rarità - si spaccia per burro la margarina - il latte condensato anche, le verdure hanno prezzi altissimi al mercato nero. I porri vengono venduti uno a uno e se non ci sono i macaroni si mangia riso e patate. Il caffè non è vero caffè, ma essenza. Solo i militari non mancano di vettovaglie, ma il manzo dell’intendenza è venuto a noia e il suo arrivo è salutato da imprecazioni. L’unica alternativa è un’insalata di pasta con le sardine o un riso al latte – quasi senza latte – con una spolverata di cacao in polvere e di noci sbriciolate. Un giorno, un soldato del Lot in licenza le porta un paniere di tartufi e per dieci giorni la casa è pervasa dal loro profumo. Un altro giorno – memorabile – un commerciante di farina di Verdun, che ha una mucca in giardino, le regala un formaggio fresco.
Poi ci sono i pasti notturni in un ristorante clandestino, raggiunto furtivamente attraverso le strade buie. Il gelo punge, la tramontana rende acuta la fame di chi passa la notte fuori. È essenziale mangiare per combattere il freddo. “Si tratta di conservare caldo nelle vene un sangue che tutti, qui, sono pronti a versare a ruscelli, a donare senza misura. Grande coraggio, grande appetito…” scrive nel libro De ma fenêtre. Una sera informa il marito di aver chiesto ad Annie le Pène di raggiungerli. “Perché?” chiede lui sorpreso. “Ma per cucinare il boeuf bourguignon!” Lui scoppia a ridere. Ed è ad Annie che Colette scrive poco prima di rientrare a Parigi per chiederle di procurarsi del burro, un sanguinaccio, della carne, del vino rosso e delle cipolle.
Nella capitale la vita si fa sempre più difficile, ci sono scioperi e gli abitanti soffrono. Il latte è riservato ai vecchi e ai bambini sotto i tre anni, le macellerie aprono solo due volte la settimana. Dopo l’armistizio, si torna lentamente alla normalità. Henry riprende il posto di direttore del Matin., Colette quello di collaboratrice dello stesso giornale.
La scrittrice, nella sua lunga vita, passa attraverso due guerre. Nel 1941 a Parigi torna il razionamento, tornano le case fredde, la mancanza di cibo, i negozi e i ristoranti che chiudono per carenza di materia prima. Nel suo libro De ma fenêtre c’è un riflesso di questa situazione.
“Qualcuno legge a voce alta, pretendendo di farci ridere, una ricetta gastronomica del 1939.
-Prendete otto o dieci uova…-
-A chi?- chiede una bambina che non ha riso, che sa che otto uova non si trovano a comprare da nessuna parte e che sta andando a mettersi in coda per una lamella di formaggio, un chilo di castagne e dei cavolini di Bruxelles…”
In questa situazione difficile molti bambini sono giudiziosi. Uno di loro consiglia alla madre di riempire gli stomaci di tutti i componenti della famiglia con:
“delle verdure, delle grosse minestre spesse, delle mele cotte e delle castagne, un pezzo di pesce, forse… Solo la domenica un arrosto o un bollito. Niente bistecche sottilissime, né prosciutto trasparente, né salame tagliato a fette più piccole di una moneta del papa. Piuttosto, delle polpette in salsa piccante o del manzo miroton. E una torta, comprata dal panettiere. Ma già a partire dalla domenica sera, cambiamento in vista. Solo una cioccolata calda, fatta con l’acqua, prima di andare a dormire. E, se è possibile, mettere da parte un po’ della salsa del miroton, per rendere allettanti le patate del lunedì…”. Sì, perché il sugo della carne cucinata in questo modo, fatto con la cipolla, il lardo e l’aceto, ne migliora il gusto, rendendole saporite e appetitose.
Lei, da parte sua, consiglia alle madri la flognarde, che, sostiene, secondo i certificati di origine e le lettere patenti in suo possesso, era già conosciuta in una stazione di posta di Flogny, nello Yonne, un secolo prima.
“Mentre il marito cambia i cavalli, la moglie batte energicamente la pasta, inforna e fa pazientare i viaggiatori intorno alla flognarde, innaffiata da un vino locale allegro, leggero e fruttato. Sia caldo che freddo, è un dessert sostanzioso, che si prepara in fretta, una merenda eccellente.”
E proprio perché è “veloce e sostanziosa, eccellente sia calda che fredda, non ha bisogno di latte, si accontenta di 2 uova per quattro e persino sei persone, di 3 o 4 cucchiai di zucchero in polvere o vanigliato e dell’indispensabile pizzico di sale” e che, volendo, se non c’è lo zucchero, esso si può sostituire con una dose maggiore di sale e un po’ di gruviera grattugiato, è adatta in un momento di restrizioni.
Ecco il suo suggerimento, contenuto nel libro De ma fenêtre:
“Ricompensate i vostri figli con una flognarde come quella che mi prepara Pauline quando ho lavorato bene. Questa grossa crêpe, che nel forno gonfia fino a scoppiare, non richiede un grande impegno né una grossa spesa ed è il piatto più veloce che ci sia.
Due uova solamente, un bicchiere di farina, uno di acqua fredda o di latte scremato, un pizzico abbondante di sale, tre cucchiai di zucchero il polvere. Nella terrina, fate una fontana con la farina e lo zucchero, e incorporate a poco a poco il liquido e le uova intere. Poi battete la miscela come se fosse la pasta della crêpe: versatela nella tortiera di latta precedentemente imburrata, e mettete a intiepidire in un angolo del forno o del fornello, per un quarto d’ora, affinché il calore non colga di sorpresa la vostra pasta. Dopo di che, in venti minuti di cottura, la flognarde diventa un enorme rigonfiamento che riempie il forno, si dora, brunisce, scoppia qui, gonfia là… Alla più bella delle sue eruzioni, tiratela fuori, zuccheratela leggermente con dello zucchero in polvere e condividetela mentre è bollente. Preferisce una bevanda frizzante: sidro, vino spumeggiante o birra non troppo amara.” Servirla appena uscita dal forno perché il rigonfiamento si appiattisce presto.
E poco oltre:
“In tempi di cuccagna, voi respingevate la crema pasticcera gialla e untuosa, la torta spolverata di zucchero vanigliato, il kouglof e l’éclair come se fossero trappole sataniche, e non ammettevate che il santo Biscotto. Oggi, il vostro spirito di contraddizione vi spinge verso i dolci, malgrado le restrizioni…”.
Dalla finestra del suo appartamento, Colette osserva le persone nel giardino del Palais Royal. Sono soprattutto giovani, che vengono a consumare uno spuntino nell’intervallo del lavoro negli atelier o in banca. “Leggono in piedi, appoggiandosi alternativamente su una gamba o sull’altra. Con una mano reggono il libro, con l’altra mangiano. Portano alla bocca la baguette, un tubo cavo a forma di zufolo, che spesso non contiene nulla o staccano dei piccoli bocconi dalla tasca o dalla borsa con fare distratto…”. Si commuove a vedere le donne, ostinate e coraggiose, che dimagriscono nelle loro tane fredde, con il focolare ridotto a un buco nero, il letto coniugale vuoto, la tavola, un tempo rallegrata da almeno un altro coperto, mai apparecchiata. Non le consola né le compatisce, ma le sostiene con dei consigli pratici su come affrontare la difficile situazione, su come cucinare usando dei prodotti alimentari di minor valore, dei surrogati, su come mantenere il fuoco acceso più a lungo con l’aiuto di giornali arrotolati molto stretti. È l’arte di arrangiarsi.
Per fortuna, ci sono le petites fermières Yvonne Brochard e Thérèse Sourisse, lanciate nell’avventura della coltivazione della terra e dell’apicoltura per il gusto della campagna e degli animali. Fra il febbraio del 1933 e l’agosto del 1952, le due donne, dalla loro piccola fattoria in Normandia, le inviano del cibo introvabile a Parigi. “Se non fosse per voi…” scrive loro più volte Colette. “E non arrossisco a mangiare, perché mangiare mi rallegra” aggiunge, come per rispondere all’obiezione che in quegli anni c’è ben poco da mettere sotto i denti per tutti. Certi giorni mangia le patate immagazzinate in cantina, che la cuoca Pauline libera pazientemente dai germogli, altri giorni attinge alla piccola provvista di cibi conservati. “Se ascoltassi la voglia – dice - aprirei una scatola dopo l’altra, ma bisogna essere saggi.”
Yvonne e Thérèse fanno parte di un regno che un tempo era il suo, il regno della sua infanzia, che loro le restituiscono inviandole cibi come le mandorle al pistacchio, uguali a quelle che la madre le portava da Auxerre, e la marmellata di castagne, che è proprio come quella di Sido. L’apertura dei pacchi, scrigni pieni di tesori, è una festa. “Sapete che cosa mi ha fatto più piacere nell’ultimo pacco? Il pane, così buono e leggero. Se voi vedeste il nostro!” A volte le uova arrivano con il guscio rotto perché l’imballaggio non è sufficiente, le fragole sono ridotte in purea, i cavoli sono frollati, delle ciliegie arriva solo il succo. Per non parlare del burro e della carne nei mesi estivi. Ma i fagiolini, le prugne secche “che parlano inglese”, lo zampetto di maiale tondo e rosato, le deliziose cialde alla vaniglia, le gaufrettes, le rape, i ravanelli, le barbabietole dolci, il miele, i biscotti petit-beurre, da intingere nel caffè, il cosciotto di coniglio, il sanguinaccio, l’aglio, lo scalogno, i cavolini di Bruxelles che sembrano boccioli di rosa, le crepinettes sono meravigliosi. “E la preziosa insalata! Siamo forse gli unici in tutta Parigi a poterla mangiare…” Yvonne e Thérèse vengono di persona a portare alla scrittrice le poules-au-pot en comprimés, i dadi con i quali Pauline cucina una minestra di verdure densa e concentrata. Altre volte portano una gallinella bionda, dalla carne rosata, grassoccia al punto giusto. Colette non lo considera un boccone da re solo perché in quei giorni non ci sono re che mangino così bene. Ribattezza Pathérhèse il loro paté e aggiunge che se fosse capace di fare un paté così buono non si sfinirebbe a scrivere libri e guadagnerebbe una fortuna. Nel grasso avanzato, Pauline cuoce le patate per renderle più saporite. “Che cosa mi sono offerta oggi come pranzo! Due uova cocotte nel sugo di carne avanzato, un incantevole cavolfiore con la besciamella e dell’insalata. Tutto era così fresco!”
A volte Colette ha l’impressione di essere una specie di Arpagone seduto sulle sue ricchezze di carne, di uova e di verdure. “Il semolino è superbo. Aspetto i fagiolini e tutto quello che si può mangiare e conservare. Grazie per l’uva color dell’oro. Con i fagioli potrei confezionarmi una corona…”. “Sapete cosa ho trovato più delizioso in questo periodo di crisi? Il vostro lardo, morbido come il velluto! E l’anatra, che abbiamo liquidato in un solo pasto.” Dagli “angeli nutritori” arriva anche una mortadella des jours d’autrefois, come quella di un tempo. “Questa sera mangeremo dunque la crème de la Lande.” Tutte le sue lettere, concise, vivaci, piene di colore e scritte nel suo bello stile di sempre, sono state raccolte nel libro omonimo Lettres aux petites fermières.
Il 12 dicembre 1941, il marito, che è ebreo, viene arrestato nel loro appartamento al Palais Royal. Lei si sente demolie e non ha voglia di mangiare. Lo fa dietro insistenza della cuoca Pauline. Dalla prigione riceve le richieste di cibo di Maurice. “Il colmo – dice – è che subito dopo il suo arresto è arrivato un pacco pieno delle cose che gli piacciono: il paté, il burro, la carne fresca…” La lista delle cose desiderate scarabocchiata da Maurice comprende: il pane, il burro, i biscotti, il pan di zenzero, il formaggio, il prosciutto e il miele. “Il pan di zenzero è la cosa migliore per gli intestini…” le spiega. Il 6 febbraio viene liberato. Quando rientra a casa – Colette è dal parrucchiere, non è stata avvertita - sul tavolo di cucina c’è un pacco appena arrivato dalla campagna, che contiene le madeleines, il burro, un pollo e un dolce leggero. Proprio quello che ci vuole per lui che in prigione ha perso dodici chili!
L’inverno è freddissimo, Parigi è sotto un manto di neve sporca, che nessuno rimuove. I bombardamenti continuano, ma lei e il marito non hanno paura e non lasciano l’alloggio.
Quando, finalmente, la guerra finisce, Colette scrive all’amica Marguerite Moreno: “Voglio mangiare. Ma qui tutto procede così lentamente. Voglio le aringhe marinate e lo stufato di manzo…” Ha in mente quello di Madame Yvon, di cui parla in Prisons et paradis.
“Un giorno in cui avevo mangiato da lei uno stufato di manzo ‘all’antica’, che appagava almeno tre sensi su cinque – infatti, oltre al gusto vellutato e alla morbidezza che lo faceva sciogliere in bocca, brillava di una salsa caramellata, mordoré, ed era cerchiato sui bordi di un sottile strato di grasso, color dell’oro - ho gridato:
-Signora Yvon, è un capolavoro! Con che cosa lo avete fatto?-
- Con del manzo - mi ha risposto la signora Yvon.
- Mio Dio, lo so bene… Tuttavia, in questa preparazione c’è un mistero, una magia… Bisogna pur poter dare un nome a una meraviglia simile!-
- Certo, è del manzo.- ha risposto ancora la signora Yvon.”
I mesi dopo la liberazione sono i peggiori di tutti. Mancano i collegamenti, i treni e i camion sono mobilitati per l’esercito, il combustibile scarseggia. “Brucio quel poco che è rimasto e vivo sotto alle coperte con la bottiglia dell’acqua calda.” Divide generosamente il poco cioccolato che ha con un’amica che è in ospedale, costretta dalla malattia a camminare carponi. La prima settimana di febbraio rassicura le fermières, che continuano a mandarle burro e fagioli, che il combustibile è durato fino al disgelo. Manca il caffè. Ogni tanto, Maurice, che un tempo vendeva perle preziose alle dame dell’alta società, parte per la campagna alla ricerca di libri rari da smerciare e se ne torna con una lepre o una dozzina di uova. Sfruttano ogni occasione possibile dove ci sia da mangiare, lei va anche nelle scuole a giudicare i disegni dei bambini. “On est nourri!…” dice. Il 26 agosto è invitata dall’ambasciatore Sert ad assistere alla parata della vittoria da un balcone di rue de Rivoli. Dal basso arrivano degli spari che mandano in frantumi i vetri e gli specchi dorati. Ma lei, che non si era spaventata per i bombardamenti, non si spaventa certo per qualche colpo di fucile. Senza particolari turbamenti, rientra e si avvicina al ricco buffet di carne fredda e di champagne, apprestandosi ad assaporare tutto con gusto.
A Pasqua accetta l’ospitalità di Simone Berriau a Les Salins d’Hyères, vicino a Saint Tropez. La casa è affollata come una stazione ferroviaria, ma il cibo non manca. Una sera la proprietaria torna a casa con una pecora viva. Colette ha una terrazza tutta per sé, dove lavora a un libro di memorie chiamato L’Etoile vesper, nel quale parla della sua vita durante la guerra, delle sofferenze, della vecchiaia, dei gatti e dei cani che ha avuto.
Torna a Parigi, ma è sempre più inferma. La sua sola distrazione, al Palais Royal, è guardare il cambio delle stagioni dalla finestra. Un medico svizzero la invita nella sua clinica di Ginevra, dove la sottopone a iniezioni e scosse elettriche, che la lasciano sorda e con le vertigini. Il trattamento non dà grandi risultati. “Non sopravvaluto i benefici del mio trattamento, io non camminerò mai più” scrive all’amica Helène Morante. Cerca di restare ottimista, aiutata dal fatto che in Svizzera non ci sono ristrettezze e che le riserve di cibo sono copiose. Le sembra che in questo paese della cuccagna scorrano fontane di latte, che si innalzino montagne di cioccolato e che tutto sia a portata di mano, a profusione. Ma sente che la sua vita, ricca di scandali e fruttuosa di opere d’arte, è alle spalle. Si avvicina il momento in cui “la polvere eterna, che priva gli occhi della loro luce meravigliosa…” spegnerà per sempre anche i suoi, del colore del mare.