“Sono nata in un paese di provincia dove si conservano ancora, come il segreto di un profumo o di un unguento miracoloso, le ricette che non trovo in alcun Codex culinario - scrive in Prisons et paradis Colette - “bambina molto amata di genitori non ricchi”, che vive in campagna fra alberi e libri e che “non ha conosciuto né desiderato giocattoli costosi.” Il paese è Saint-Sauveur, nel distretto dello Yonne, a due ore e mezza di macchina a sud di Parigi. Non è la Borgogna ricca e prospera dei vigneti, ma una regione più modesta e ordinaria, popolata di umili villaggi di contadini, nei quali il tempo è scandito dal succedersi delle stagioni. La madre, Adèle Sidonie Landoy, detta Sido, cresciuta in Belgio, torna nello Yonne, sua regione d’origine, per sposare il proprietario terriero Jules Robineau-Duclos, molto più vecchio di lei. Per lui abbandona il suo ambiente, “la calda dimora belga, la cucina che odora di gas, di pane caldo, di caffè…”, lo studio del pianoforte e del violino. Entra, giovane sposa, nella grande casa “circondata dal duro inverno dei paesi stranieri”. Lui è un violento e un ubriacone, che ha per compagna solo la dive bouteille.
Ma Sido non si perde di coraggio. Fa imbiancare la scura cucina, che insieme ai refettori, alle scuderie, ai garage, al pollaio, al lavatoio, fa parte dei communs, i locali annessi alla casa padronale, e mette a frutto le sue eccellenti doti culinarie. Munita di zangola, prepara il burro, pressa i formaggi, sorveglia l’esecuzione dei piatti, molti dei quali fiamminghi, si sbizzarrisce nella preparazione di marmellate e di conserve, realizza pastafrolle per i dolci con l’uvetta. Ma esaurite le ghiotte ricette, tirati a lucido i pavimenti, curato l’orto e innaffiato il giardino, si fa prendere dalla tristezza del suo isolamento e piange. Il marito, per farsi perdonare la sua brutalità e le lunghe assenze, le regala un piccolo mortaio di marmo, che, opaco e sbrecciato, farà parte della batteria di cucina di Colette al Palais Royal, e nel quale Sido pela le mandorle, mischiate allo zucchero e alla scorza di limone.
Dal matrimonio nascono due bambini, Juliette - descritta più tardi da Colette come “enigmatica, solitaria, con una testa dalla forma curiosa, di una bruttezza attraente, gli zigomi alti e una bocca sarcastica” - e Achille. Dopo otto anni di matrimonio il marito, di cui la famiglia d’origine aveva chiesto da tempo l’interdizione, muore. Il 20 dicembre 1865 Sido sposa il capitano Colette, con il quale aveva già una relazione mentre era ancora vivo il consorte. Nato a Tolone nel 1829, figlio di un ufficiale navale, Jules Colette ha frequentato l’accademia militare di Saint-Cyr. Assegnato agli zuavi - i soldati francesi vestiti come gli arabi – a 26 anni è promosso capitano e, quando Napoleone III viene in Italia a sostegno dei piemontesi contro gli austriaci, lo segue. Nella sanguinosa battaglia di Melegnano perde una gamba. Mentre viene portato fuori dal campo, tuttavia, continua a scherzare e quando Napoleone III visita l’ospedale e si informa della ferita, gli risponde che non è nulla, solo un graffio. Non vuole medaglie e, quando l’Imperatore gli chiede se c’è qualcos’altro che vuole, gli risponde: “Beh, sì… una gruccia, Maestà”. C’è un episodio legato al cibo, avvenuto in Crimea - racconta Colette nel suo libro Les heures longues - che il Capitano ricorda sempre volentieri.
“Una sera, all’ora del frichti Oh, eravamo ben forniti di tabacco e anche di fuoco, anche se non avevamo niente da cuocervi sopra. Il mio attendente mi porta l’insalata, dovrei dire il foraggio, perché l’olio e l’aceto mancavano ormai da due mesi. ‘Pezzo di ignorante – gli dico – hai dimenticato di condire l’insalata!’ ‘Ma, signor tenente, sapete benissimo che è solo nella tenda di Canrobert che ci sono ancora olio e aceto.’ ‘Benissimo, allora che cosa aspetti a portare quest’insalata a Canrobert? Fila! E che la condisca con attenzione, altrimenti mi sente!’ Ci mettiamo tutti a ridere, poi mi accendo una sigaretta e penso ad altro. Dopo un’ora, chi ti vedo arrivare? Quell’idiota del mio attendente, che regge, come se fosse il Santissimo Sacramento, la ciotola dell’insalata condita con l’olio, l’aceto, il sale e il pepe…Urlo: ‘Che cos’è? ‘Signor tenente, è la vostra insalata.’ ‘Che insalata?’ ‘Quella di Canrobert. Sono stato nella sua tenda, come mi ha detto lei. Gli ho detto che il mio tenente ordinava che gli si preparasse un’insalata ben condita.’ ‘Allora? Che cosa ha detto?’ ‘Non ha detto nulla. Ha condito l’insalata. E adesso ve la riporto, signor tenente.’ Il tempo di infilarmi la divisa numero uno, che consisteva nel gettare via la coperta e asciugarmi la neve sul sedere, e sono corso da Canrobert. Lui mi guardava con le sopracciglia aggrottate, senza aprir bocca. Sono riuscito ad articolare:
‘Io…Io sono… adesso…l’insalata…’. Lui non fiatava, mi guardava. Alla fine: ‘Ah! Ah! Voi siete l’uomo dell’insalata? E dite, era buona, la mia insalata?’ ‘Io…le mie scuse…’ ‘Andate, tenente. E soprattutto, ditelo che io so preparare bene l’insalata. Ci tengo enormemente alla mia reputazione di cuoco.’” Dopo dieci mesi di matrimonio nasce Léopold, il più piccolo dei due “selvaggi dal piede leggero, ossuti, senza carne superflua, frugali come i genitori, che alla carne preferiscono il pane bigio, il formaggio duro, l’insalata, l’uovo fresco, la torta ai porri o alla zucca, sobri e virtuosi”. Il 28 gennaio 1873, dopo tre giorni e due notti di dolori, alle 10 di sera nasce Gabrielle Sidonie. “I bambini, portati così alti e lenti a scendere verso la luce, sono molto cari perché hanno voluto sistemarsi vicino al cuore della mamma e non la lasciano che con rimpianto…” le dirà Sido, per la quale lei sarà sempre Minet-Chéri. Il padre, invece, la chiama Bel-Gazou, che in dialetto provenzale vuol dire ‘bella lingua’. La sua stanza è l’antica loggetta del portinaio posta sopra all’ingresso carraio, ma Gabrielle passa la maggior parte del tempo in cucina, dove la balia Mélie le racconta storie impressionanti, che le danno i brividi. Guarda la sua nutrice sistemare il brasato nella pentola e riempire di tizzoni ardenti il grande coperchio concavo o disporre sul girarrosto del camino il pollo con gli aromi e impara le regole cardinali della cucina tradizionale. Va con lei dal panettiere a portare il gratin al formaggio da mettere in forno, dopo che è stato ritirato il pane del giorno. Gli altri piatti, invece, vengono infornati in quello di casa, quel “forno di campagna, antico, lavorato a colpi di martello, (che) accoglieva i pazienti stufati, gli ossibuchi che conservavano tutto il loro volume e i loro sughi” descritto in Prisons et paradis.
Quando riesce ad arrampicarsi in cima al muro che separa il giardino dal cortile e a raggiungerne il bordo lastricato, largo come un marciapiede, ombreggiato dai lillà, lo decora con vetri colorati e sassi levigati. Il luogo diventa il suo nido inaccessibile, come quello della gazza ladra. La domenica pomeriggio gioca a “quando sarò grande…” con le bambine del villaggio, che mancano di immaginazione e sanno solo scimmiottare. Le loro risposte sono banali, scontate. “Una sorta di saggezza rassegnata, il timore dell’avventura, di ciò che è ignoto, trattengono la figlia del droghiere, dell’orologiaio, del macellaio e della stiratrice, prigioniere nel negozio dei genitori...”. Gabrielle, al contrario, dichiara: “Io sarò marinaio e nei miei viaggi…”. Sopra alle trecce che sfiorano il terreno e nelle quali ogni tanto si inciampa, sogna di indossare il berretto e i pantaloni blu della divisa e di prestare servizio su un vascello che solchi impavido le onde alte, in rotta verso l’isola del tesoro, dove maturano frutti lucenti.
A otto anni accompagna il padre nei suoi giri elettorali. Il Capitano ha deciso di entrare in politica con il lodevole programma elettorale di istruire il popolo, diffondendo la lettura, la storia naturale, la fisica e la chimica. A questo scopo, porta con sé i microscopi e i tabelloni illustrati e chiude gli incontri invitando tutti all’osteria a bere un vino brulé alla cannella. Dietro suggerimento dell’oste - un goccio di vino non può farle che bene – Bel-Gazou si scola un bicchiere di quel nettare caldo e profumato, pronunciando la formula “à la santé”. Poi appoggia rumorosamente il bicchiere vuoto sul tavolo e si passa il dorso della mano sulla bocca, per asciugarsi i baffi lasciati dal Borgogna. Aggiunge contenta che “Ça fait du bien par où se passe!”. Purtroppo, quando Sido scopre dall’alito il motivo della sua allegria serale, le proibisce di andare ancora in giro con il padre e questi decide di porre fine alla sua avventura politica, che gli è già costata la vendita di una casa per coprire le spese. Smessi i panni di ‘agente pubblicitaria’ del padre, Gabrielle indossa quelli di accompagnatrice del fratello Achille, medico, nei suoi giri di visite. Non assiste alla sua prima operazione – il paziente è uno scavatore di pozzi con la gamba spappolata dalla dinamite – ma ne vede molte altre e impara il mestiere. Sembra volerlo scegliere a sua volta – ha già imparato a ricucire le labbra spaccate - ma un altro destino la attende.
Completano il nucleo familiare dei Colette una cagnetta avanese dal lungo pelo setoso, per lavare la quale Sido si cinge di un ampio grembiule di colore blu, e una tribù di gatti. Babou, il gatto vegetariano, ama le fragole, le punte degli asparagi e i meloni noir-de-Carmes. La gatta Nanouche avverte dall’odore quando è ora di andare a leccare la schiuma del latte appena munto sul bordo del secchio. Le micie vagabonde, avide di carne cruda, corrono al rumore della carta crocchiante del macellaio, gli altri gatti sono golosi di ostriche e di lumache. C’è anche un ragno, che ogni notte lascia il soffitto della stanza da letto di Sido dove vive, per scendere a bere la cioccolata dalla sua tazza. È un mondo magico e semplice.
La casa dal tetto di ardesia di rue de l’Hospice - oggi rue Colette - è scura e senza grazia e ha un aspetto “vagamente sinistro”. Al portone c’è un catenaccio da vecchia prigione e il campanello ha un suono da orfanotrofio. Solo “dalla parte del giardino l’abitazione sorride”. Nell’orto “du Bas” , circondato dai muri di pietra riscaldati dal sole, ci sono le carote, la lattuga, il dragoncello, l’acetosa, le melanzane, il peperoncino e l’aglio. In estate, l’odore delle piante di pomodori si mescola a quello delle albicocche mature. In questo piccolo paradiso terrestre c’è anche un frutteto con le prugne reines-claudes “un giorno verdi sotto la polvere argentea, il giorno dopo con le guance ambrate”, le pesche dal sapore aspro, le ciliegie dalla polpa rosa ridotta a brandelli da un merlo, le sorbe e le pere Messire-Jean. Qui Gabrielle impara i nomi correnti delle piante e dei frutti: le ciliegie rosso lacca dalla polpa trasparente e acidula sono le montmorency, le pesche dalla forma sinuosa le tétons-de-Venus, le fragole chiare di inizio estate le belles-de-juin, quelle più tardive, ricche di succo e con la pelle sottile, le liégeuses-Haquin. Gli orti, i giardini, i cortili con i pergolati e le viti a spalliera, separati da un muro divisorio, danno tono al villaggio.
Nella bella stagione vi si passano le giornate e si fa il bucato. I bambini strappano il cuore dell’insalata per divorarlo, estirpano le carote novelle e le mangiano “inzaccherate di terra”, tolgono le fave dal baccello e sgusciano i piselli giovani e dolci e li schiacciano sotto i denti con un rumore crocchiante, prima di andare ad appollaiarsi sulle sponde dei carri da fieno parcheggiati sotto le tettoie. Gabrielle, a cavalcioni del ramo biforcuto del grande noce, legge Balzac e ascolta il vicino di casa Miton, che parla al cane dal pelo bianco, che il 14 luglio viene dipinto di rosso sulla testa e di blu sul didietro, e mamma Adolphe, che canta mentre lega i mazzetti di violette per l’altare della chiesa. Ha imparato a leggere a tre anni e da allora non ha più smesso. A sette anni affronta Victor Hugo, Prosper Mérimée, Alphonse Daudet e la Comédie Humaine.
La campagna circostante è fatta di colline, di valli, di prati, di campi, ma soprattutto di boschi. “Fitti e dilaganti, essi si estendono in placide onde fino all’orizzonte” e invitano al vagabondaggio. Talvolta, lei vi si reca all’alba, a “fare il folletto”. Avverte uno stato di grazia indicibile, una “connivenza con l’accorrere del primo soffio, con il primo uccello, con il sole ancora ovale…”. Si graffia le braccia e le gambe con i rovi, raccoglie bracciate di garofani selvatici, di fiordalisi, di stellarie, mangia le acidule amarene e l’uva spina, si cala nei burroni dove fiorisce l’aglio selvatico, raggiunge le paludi dove cresce rigogliosa la menta. La madre lo scopre dal sentore degli abiti ed è in apprensione. Raggiunge un boschetto di pini che cresce su un’isola in mezzo a uno stagno, vi accende un fuoco, cuoce una mela, una pera o una patata rubata in un campo e li mangia, impregnati di fumo e di resina. Poi si distende a terra, sentendosi “quasi in coma” dal bene che sta e dalla voglia di non fare niente…”.
Nella stagione estiva, le vespe e le mosche succhiano il nettare dei fiori di tiglio e di caprifoglio e “fanno vibrare la foresta come un organo; a mezzogiorno gli uccelli non cantano, stanno fermi sui rami cercando l’ombra, si lisciano le penne e osservano con occhi saltellanti e lucenti il sottobosco…” I boschi cedui sono pieni di fragole selvatiche e di mughetti, ma anche di serpi e di bisce, che a volte la spaventano. Le selve di alberi alti come colonne, quasi buie a mezzogiorno, ospitano invece caprioli, fagiani, cinghiali e conigli. Una volta, mentre raccoglie le faggine piccole e oleose, che danno il pizzicorino in gola e fanno venire la tosse, sente ululare il lupo. In autunno va in giro a bacchiare le castagne, a raccogliere le pere selvatiche, a sgranocchiare il gheriglio delle noci, a fare incetta di sorbe, di castagne e di funghi. Si sente “regina della terra”, una regina solida, dalla fronte alta da ragazzo, le mani piene di graffi, la voce aspra, le trecce che arrivano quasi a terra e che le fischiano intorno come fruste quando corre. Ha un gusto appassionato per tutto ciò che respira all’aria libera, lontano dall’uomo: gli alberi, i fiori, gli animali “paurosi e dolci”, l’acqua “furtiva delle inutili sorgenti…”, i funghi che crescono fra la mezzanotte e l’aurora e che lei ‘sente’ uscire dalla terra mentre scostano le foglie. A casa, fa bollire le castagne e le schiaccia dentro a un fazzoletto con dello zucchero per farne delle galettes.
D’inverno, “non appena il primo gelo posava un vetro sottile sull’acqua dei secchi, vicino alla pompa, andavo a raccogliere le prugnole appassite, che la mamma metteva in infusione in un alcool di qualità” racconta in Journal à rebours.
In Prisons et paradis, nel capitolo dedicato alla puericultura, descrive le sue merende, consigliandole alle giovani madri per i loro figli. “Una fetta di pane integrale, della lunghezza di un piede, tagliata direttamente da una pagnotta di 6 chili privata della crosta, schiacciata e sbriciolata come semola sul tavolo di legno raschiato, poi immersa nel latte fresco; un grosso cetriolo bianco lasciato a macerare nell’aceto per tre giorni e un decimetro cubo di lardo rosa, senza parte magra; un boccale di sidro forte, tirato dalla cannella della botte… Che ve ne pare di questo menu? È quello di una delle mie merende da bambina. Ne volete un altro?
Una crosta di pane caldo infarinato, svuotata della mollica, tappezzata all’interno di burro e di gelatina di lampone; mezzo litro di latte cagliato dolce, tremolante, bevuto dal barattolo; una ciotola di fragole bianche.
Terzo menu: una fetta di pane integrale, della lunghezza di un piede ecc. (vedi sopra), resa più alta da uno dito di fagioli rossi freddi, con una salsa al vino rappresa; una piccola panierata di uva spina.
Quarto menu, per l’inverno e l’autunno: i funghi raccolti fradici nei boschi e fatti saltare al burro per qualche minuto; delle castagne bollite e una mela. Le castagne possono essere sostituite dai ciccioli di maiale.
Gradite un menu per le merende dei mesi di luglio e agosto? Eccolo: grossi bocconi di pane caldo (solo la crosta) immersi nella schiuma della marmellata di fragole, di ciliegie, di albicocche, di tutte le marmellate di tutti i frutti di stagione!”.
Altre volte, a ricoprire la fetta di pane è la “corniola, piccolo frutto scarlatto, buono per le confetture”, come riferisce in La fleur de l’age. Oppure Mélie le prepara una deliziosa flognarde accompagnata da una marmellata rossa o mette a cuocere le mele sotto la cenere. In autunno, di nascosto dalla madre, Gabrielle beve direttamente dalla bottiglia l’olio di noci portato dai contadini che lavorano nelle fattorie dei Colette. Comincia a andare a scuola che non ha ancora sei anni, con il grembiulino nero e gli stivaletti con i bottoncini. L’edificio scolastico è vecchio e fatiscente, le due aule sono di una bruttezza e di una sporcizia indicibili. Gli alunni, a turno, vengono prima dell’orario per spaccare la legna, portare i ceppi in classe e accendere il fuoco. Ogni bambino ha con sé anche uno scaldino pieno di carbone e di cenere da mettere sotto i piedi e su cui appoggiare le patate, le castagne e le mele consumate nell’intervallo. Il fumo e l’ossido di carbonio causano torpore e una leggera asfissia e la classe è spesso sonnolenta. Non Gabrielle, però, che, come la protagonista di Claudine a scuola, è piuttosto turbolenta: “Mi sento ribollire dentro un’indisciplina compressa…”. È brava in francese e in musica ed è una capobanda incontestata. Appena può trascina le compagne a giocare a biglie e ad arrampicarsi sugli alberi. Quando nevica, chiede di uscire un po’ prima. Va a raccogliere delle manciate di neve soffice e fresca e ne fa delle palle, che divora a morsi. “È buona, ha un po’ il sapore della polvere” dice. In primavera, mangia le gemme dei tigli, gommose, dal profumo di resina. “All’inizio di marzo è il loro momento, non c’è niente di più buono” dichiara.
Adora le cerimonie religiose e civili, i matrimoni, le prime comunioni, le feste tradizionali, le ricorrenze segnate da un fiore, da un dolce o da un oggetto simbolico come l’uovo rosso di Pasqua.
“L’epoca e la regione erano frugali – scrive in Ces dames anciennes - e le infrazioni erano consentite solo in occasione delle grandi feste di nozze, ai pranzi di battesimo e delle prime comunioni, per preparare i quali venivano perpetrate ecatombi di piccola selvaggina. Da parte mia, non mai smesso di essere fedele alla semplice minestra al latte con zucchero, sale e pepe, un dado di burro fresco e delle fette di pane arrostito gettate all’ultimo momento nella zuppiera”. Gli eccessi alimentari occasionali, tuttavia, compensano la frugalità quotidiana e permettono di affrontarla meglio. Ai pranzi di nozze, si rimpinza di gallina au blanc, di coniglio o di lepre in umido. Per digerire, fra un piatto e l’altro intinge una zolletta di zucchero nel vino, che poi beve prima di riprendere a saziarsi.
“Da dove mi viene questo gusto violento dei pranzi di nozze campagnoli? Quale antenato mi ha trasmesso, attraverso genitori così frugali, questa specie di religione del coniglio al salto, del cosciotto all’aglio, dell’uovo bazzotto al vino rosso, serviti fra i muri del granaio coperti da lenzuola di tela greggia su cui risplende la rosa rossa di giugno che vi è stata appuntata?” si chiede l’eroina de La casa di Claudine.
Le nozze durano alcuni giorni. Il festino comincia con la trempée alla salute degli sposi, nel corso della quale i bicchieri degli invitati, che sfilano davanti agli sposi per abbracciarli, si riempiono, si urtano, si svuotano. Continua con la parata di piatti in umido, di lepre al civet, di cosciotto all’aglio, di uova al vino rosso. Gli uomini si sfidano a bere un secchio di vino bianco e a divorare un cosciotto di montone, poi danzano fino all’alba. Gabrielle prova un piacere sensuale a queste feste sfrenate, a questi festini pantagruelici accompagnati da una gastronomia smisurata. Non vorrebbe mancarvi per nulla al mondo.
“Il menu era abbastanza semplice, ma molto buono. Però, fra il luccio in salsa mousseline e il dolce – bastioni di Savoia, un torrone sul quale tremolava una rosa di zucchero filato – la mia memoria non ricorda nulla. Perché, grazie a qualche sorso di champagne, cadevo nel sonno repentino che, a tavola, vince i bambini stremati” racconta in Noces. La domenica delle Palme, che un tempo segnava il ritorno della primavera, gli abitanti di Saint-Sauveur portano in chiesa un dolce a forma di anello, il gateau cornu, per farlo benedire. Quello dei poveri è fatto con la pasta del pane, quello dei ricchi è una brioche, ma entrambi hanno tre o sei corni, destinati a scongiurare il Maligno e ad allontanare le tentazioni.
“Un piatto di formaggio bianco, ben pepato, mi fa da pranzo tanto quanto la torta di zucca o il gratin di porri. Il pomodoro schiacciato, la grossa cipolla, farcita di grasso o di magro rivaleggiano con la costata poco cotta” rivela nel libro De ma fenêtre. Altre volte, il sapore di un cibo semplice come la barbabietola rossa, salata, pepata, innaffiata con olio e aceto, può migliorare se si appoggia il tubero sulle braci calde su cui è stato prima messo un tartufo…
“La barbabietola rossa può avvantaggiarsi del letto caldo profumato dal tartufo. Innaffiatela d’olio d’oliva, salatela appena, pepatela e accompagnatela con un di sedano bianco. E l’aceto? Mettetelo, se ci tenete, ma usate l’aceto di vino, che è dolce” consiglia in Prisons et paradis.
“Non c’è niente per cena stasera… Che cosa mangiamo?” Sido consulta i familiari su quello che desiderano, pur sapendo che nessuno le darà un suggerimento utile. Il Capitano sceglie le melanzane e i pomodori crudi con molto pepe, mezzo bicchiere di vino e del caffè molto zuccherato, il figlio maggiore, Léo - che per tutta la vita si nutrirà solo di pasticcini, di sciroppi e di fondant - vuole una brioche alla frutta da intingere in una grande scodella di cioccolata calda, Achille vuole il cavolo rosso marinato, Gabrielle chiede la minestra al latte, condita con lo zucchero, il sale, il pepe, un cubetto di burro fresco e due ‘zattere’ di pane abbrustolito gettate nella zuppiera all’ultimo momento.
Alla madre questa non sembra una vera cena, perciò provvede ad aggiungere, di sua iniziativa, alcune fette di spalla di montone en musette, - il nome deriva da quello del sacchetto di biada con la stessa forma che si appendeva sotto il muso del cavallo - cotta a fuoco lento su un angolo della grande stufa o un po’ di rouelle de veau aux carottes et aux girolles, lo stufato di montone o di vitello con carote e gallinacci, lasciato a liberare i suoi succhi nella pentola nera di ghisa, in cui sono state gettate due zollette di zucchero per attenuare l’acidità della salsa e conferire morbidezza e oleosità alla carne. È una delle astuzie che “venivano trasmesse di bocca in bocca in occasione di feste solenni, come il battesimo del primogenito o la cresima. Sfuggivano, durante i pranzi di nozze, dalle labbra dischiuse dal vino: è in questo modo che a mia madre è stato confidato il modo di cucinare la boule di carne di gallina, il proiettile ovoidale cucito nella pelle della gallina disossata.” Come recuperare adesso “il segreto di quella boule, con le larghe fette rotonde in cui brillavano l’occhio nero del tartufo e la fava verde del pistacchio?” si chiede in Prisons et paradis.
La cena in famiglia si conclude a volte con la marmellata di mele, lasciata caramellare in un recipiente di argilla, dal sapore particolare che la scrittrice rincorrerà invano per tutta la vita. D’altra parte, molti stratagemmi culinari trasmessi da Colette alle sue lettrici sono stati appresi dalla madre. Fra questi, c’è anche il segreto della perfetta cottura dell’entrecôte Bercy, citata in un dialogo di Chambre d’hôtel.
“ La sua cucina è di prima qualità. I funghi in salsa poulette, l’entrecôte Bercy...-”.
“ Per cuocere bene l’entrecôte “occorre una padella spessa, dal fondo abbastanza largo, da riservare a questo uso: sistematela sul gas asciutta e inviolata. Quando il fondo è arroventato, gettatevi la vostra costata, la vostra bistecca, che emetteranno delle alte grida. Esse si scuriscono istantaneamente e si coprono di una crosta sottile che trattiene il sangue. Se si attaccano un po’ al fondo passatevi una lama o i denti di una forchetta. Ma fate in modo di girare una sola volta la carne.” suggerisce in Marie-Claire. Non rimane che salare, pepare e servire con del burro.
Sido è una seguace di Fourier e applica le sue regole di vita anche in cucina. Non obbliga i figli a mangiare quello che non vogliono, rispetta i loro gusti, che provvede a formare sin dalla più tenera età, secondo i principi della gastrosofia. Essi devono imparare a “leggere un piatto”, a distinguerne gli ingredienti. L’aspetto e il colore devono soddisfare la vista, il crocchiare della frittura o dei biscotti devono accarezzare l’udito, gli aromi devono stuzzicare l’odorato... Fourier consiglia cinque pasti al giorno leggeri e variati, a base di frutta, di verdura e di carni bianche piuttosto che rosse. E per quanto sia importante non togliere piacere al nutrimento, dato che esso ha in sé un importante elemento guaritore, bisogna fare un uso moderato e razionale dei piatti scelti per soddisfare l’impulso goloso.
Nella casa dei Colette non si prega, anche se Sido va a messa – si porta dietro anche il cane, che ringhia al momento dell’elevazione, con grande disappunto del parroco - fa battezzare la figlia e le permette di andare al catechismo e di fare la Prima Comunione. Non si festeggia neanche il Natale.
“Vi sembrerà strano che i miei Natali d’infanzia fossero privi dell’albero di Natale, dei frutti di zucchero appesi e dei piccoli lumi. Ma non compatitemi troppo. La notte del 24 dicembre era comunque per noi, nel nostro modo silenzioso, una celebrazione… Non avevamo il sanguinaccio nero né quello bianco, non avevamo il tacchino ripieno di castagne ma solo le castagne, bollite e arrostite, e il capolavoro di Sido, il pudding bianco, chiodato di tre tipi di uvetta - Smirne, Malaga, Corinto - farcito di melone candito, di lamelle di cedro e di cubetti di arance.
Dato che rifiutavamo la veglia tradizionale, la festa si prolungava nella veglia calma, con il brusio dei giornali spiegazzati, delle pagine girate, del fuoco in cui gettavamo qualche assicella verde e una manciata di sale, che crepitava e ardeva sulla brace…
Nient’altro? No, niente. Nessuno do noi desiderava di più e non si lamentava di avere troppo poco.” ricorda la scrittrice nel suo libro De ma fenêtre.
Dopo aver passato la serata in silenzio, a leggere e a giocare a domino, quando i rintocchi della pendola di marmo bianco annunciano la mezzanotte, compare in tavola il budino, preceduto dal profumo della salsa bollente al rhum che lo ricopre. Gli adulti lo accompagnano con un bicchiere di vino bianco frontignan o con un bicchierino di Cassis preparato per l’occasione. (Colette scriverà più tardi che gli ondeggiamenti delle galline ubriache, “titubanti, pigolanti e intonanti canzoni da corpo di guardia”, a cui Sido gettava per abitudine il residuo impregnato di alcool dei frutti pressati, erano uno spettacolo straordinario). I bambini bevono una tazza di tè di Cina, permesso solo in questa occasione perché li tiene svegli.
A Capodanno si distribuiscono i regali, anch’essi molto semplici: una dozzina di arance, una manciata di datteri o di frutti esotici, “inzuppati di soli lontani”, acquistati a Auxerre, dove Sido si reca ogni sei mesi per comprare le spezie, il tè, il pan di zucchero, le marmellate, il cioccolato, la cannella, la vaniglia, la noce moscata, l’uva passa, la frutta candita, il rum, il pepe nero e le olive. La consegna dei regali avviene dopo la cerimonia di distribuzione del pane ai poveri. È un momento che Gabrielle attende tutto l’anno. Quando, all’alba, la garde champêtre annuncia l’arrivo del nuovo anno, lei salta giù dal letto impaziente fino alle lacrime e va a vedere il panettiere che deposita montagne di pane davanti al loro ingresso. Insieme ai fratelli, lo distribuisce ai poveri e ai vagabondi che suonano alla loro porta. Quando la fila degli indigenti langue, lecca la farina depositata sulla crosta delle grosse micche rotonde.
Nel 1890 i Colette abbandonano Saint-Sauveur. Lo strappo è drammatico. Il 15 giugno vanno all’asta i mobili e il miglior offerente si aggiudica i letti, gli armadi, gli specchi, i candelieri, i quadri, gli oggetti d’arte, le opere di Voltaire, di Goethe, di Schiller rilegate in pelle e con i fregi dorati. Gabrielle salva il suo amato Balzac, ma soffre nel vedere esposti in pubblico gli oggetti della loro vita privata. La famiglia va a vivere a Chatillon-Coligny, nel Loiret, dove esercita il figlio medico.
La nostalgia dell’infanzia porterà la scrittrice a trasformare in mito il suo paese d’origine. Vi tornerà spesso con la memoria, quasi mai nella realtà.
“Lo so, la casa e il giardino vivono ancora, ma che importa, se la magia li ha ormai abbandonati, se è perduto il segreto – luce, odori, armonia d’alberi e di uccelli, mormorio di voci umane sospese dalla morte – che apriva un mondo di cui ho cessato di essere degna?” scrive in Sido. Non ha senso tornare. La casa natale ha perso per sempre il suo significato.