Pasti sostanziosi, sette ore filate di sonno, qualche pennichella durante il giorno, con la testa appoggiata allo schienale della poltrona rappresentano la ricetta migliore per mantenersi in salute. E avere sempre a portata di mano un buon pezzo di formaggio e una bottiglia di vino. “La sua scrivania – dice l’editore Fayard - sembra sempre apparecchiata per un pic nic.” Per non parlare dei cioccolatini. Grazie a questi sostegni, riesce a mantenere un ritmo di lavoro frenetico, che quasi non conosce soste. Anche quando la colpiscono i malanni, la ricetta non cambia.
Sin da bambina, il cibo è stato panacea e rimedio di tutti i mali. A 5 anni, febbricitante, non segue il consiglio del medico di bere del brodo e del latte, ma chiede alla mamma del camembert, che ottiene. Il formaggio compie il miracolo, la febbre passa. Il cibo rinvigorisce il corpo e rinforza le difese immunitarie. Nel 1918, la febbre spagnola miete molte vittime. Muoiono Guillaume Apollinaire e l’amica Annie le Pène, la cuoca sopraffina del boeuf bourguignon. Colette la accusa di essere stata la causa della propria fine. “Che morte imbecille! - dice - Si dimenticava di pranzare o di cenare, oppure saltava un pasto per non ingrassare e l’influenza l’ha aggredita mentre era senza difese, con lo stomaco vuoto.” Non c’è pericolo che a lei succeda lo stesso.
Quando a Saint-Tropez si rompe il perone cadendo in una buca, si lamenta di avere fame mentre ancora è all’ospedale e la stanno ingessando. E pazienza se questo vuol dire essere un po’ corpulenta, 81 chilogrammi per un metro e 63 centimetri di altezza. Non si fa scrupolo di abbuffarsi ingordamente anche accanto alla stanza funebre dove giace la sua amica. “I morti non devono rattristare i vivi - dice – Tanto, prima o poi ci passeremo tutti!” E per addolcire il dolore della figlia di Annie, la porta al ristorante, dicendole che il cibo è l’unico mezzo per combattere la condizione dolorosa del lutto.
Solo negli ultimi anni ubbidisce alle imposizioni dei medici. “Nei sei giorni durante i quali ho dovuto rinunciare a nutrirmi –scrive alle petites fermières – mi avete salvato la vita con i vostri biscotti, che mi era concesso di inzuppare nel brodo di verdure senza sale. Il brodo di verdure è un meraviglioso disintossicante.” Se fosse una donna alla moda, sarebbe contenta dei chili perduti con la dieta forzata e non finirebbe di ringraziare. Ma lei non è interessata a mantenersi agile e snella e si sente solo sconsolata e indebolita, tanto da non riuscire a reggersi in piedi. Non si può continuare a mangiare solo rape e carote!
Un alimento nelle cui virtù terapeutiche ha sempre creduto è l’aglio. Si vanta di sgranocchiarne quaranta spicchi al giorno, come se fossero noccioline. “Serve – dice – a prevenire influenze e bronchiti.” Il suo aroma la accompagna dall’infanzia fin quasi alla morte. Lo usa per condire i piatti, lo aggiunge al formaggio, lo sgranocchia crudo come se fossero noccioline, lo succhia fondant, come scrive nel libro De ma fenêtre.
“Avevo l’abitudine in tutte le stagioni di rifarmi con esso il fiato e il buon umore. Mettevo nel forno caldo l’aglio da pelare, facendo attenzione a non far abbrustolire il suo rivestimento trasparente. Quando la polpa bianca è molle sotto le dita, bisogna bucare la buccia e succhiare l’interno, come fanno i bambini con le castagne bollite. Lei, Signora, indietreggia solo a leggermi? Ha torto. Per la salute, inoltre, l’aglio è quasi una panacea.”
Sostiene anche la necessità, per mantenere lo stato di benessere fisico dell’organismo, di mangiare verdure crude. Primi fra tutte, i finocchi, di cui invita ad amare il gusto all’anice. “Mangiamoli crudi, abbiamo bisogno di verdure crude. Oppure cuociamoli, ma poco. Togliamo le coste esterne, più coriacee, che andranno a profumare una minestra. La parte tenera, sistemiamola su una di quelle paste povere di burro, di zucchero e di uova, che tutte sappiamo impastare e che sono buone mangiate appena uscite dal forno. Torta ai finocchi, torta ai piselli conservati, torta all’acetosa…”.
Si vanta spesso di prendersi cura della salute degli amici e degli amanti, che sottomette al suo regine alimentare e aiuta con gradevoli ricette terapeutiche. Per tirarsi su, dice loro, non c’è niente di meglio di una cioccolata calda o di un semolino dolce con la vaniglia. Si preoccupa dei bambini durante la guerra.
“Sono circondata da fanciulli che soffrono terribilmente a causa dei geloni alle mani e ai piedi. Andando indietro, molto indietro, con la memoria, mi ricordo che mia madre, d’estate, preparava e teneva di scorta, nel caso in cui i figli avessero avuto quei geloni aperti che da noi si chiamano ‘screpolature’, una bottiglia di aceto di rose, fatto con i petali di rose rosse messi un mese in infusione in un aceto forte, poi chiarificato nella carta da filtro.”
Il preparato era talmente buono che, di nascosto dalla madre, lei succhiava le compresse imbevute di aceto “dall’odore pungente, deliziandosi al gusto combinato dell’aceto e della rosa…”. L’aceto era fatto in casa, ottenuto dalla fermentazione del vino bianco. Le rose, rosse, provenivano dal giardino. In cada non mancava mai anche l’aceto di vino rosso, aromatizzato con il pepe, i semi di finocchio, l’aglio e il dragoncello. Le piacciono molto anche i pickles, i sottaceti. Nel libro Per un erbario racconta come li preparava:
“Quelle verdure che non consideriamo neanche degli alimenti trovavano posto nella raviera, nel boccale, nel bariletto di gres, dove la ‘madre’ dell’aceto dorme e si gonfia. Nella stagione in cui la cappuccina sfioriva e compariva la bacca che si ingrossava, io la mandavo a raggiungere i bottoni dei capperi sottratti alla pianta di Segonzac, i rami grassottelli del critmo, i piccoli meloni abortiti, le deboli carote, qualche fagiolino filiforme, gli agrestini, tutte le rimanenze stagionali che, rinunciando ad arricchirsi di zucchero, affondavano nell’aceto le loro scialbe virtù, al fine di risollevare, più tardi, la malinconia di una carne di vitello fredda e di forzare l’ultima resistenza di un manzo al sale grosso.”
Colette raccomanda le mele cotogne per il mal di stomaco e gli infusi di issopo per la tosse. Di quest’ultimo, che è anche un digestivo, utilizza i rametti cespugliosi per farcire il cavolo, come racconta nel libro Le fanal bleu.
“Un issopo, signore, credo che sia un issopo quel ramoscello già secco ma ancora odoroso, delicato quasi quanto i cristalli di neve… all’inizio il suo odore ricorda quello della canfora, il suo effluvio incrocia due o tre profumi casti come quelli della lavanda e del rosmarino, prima di arrivare a… mio Dio, a quello dell’issopo. Issopo e mundabor… Accettate dunque come issopo la piccola pianta dall’odore gradevole. Io lo considero uno dei regali che volano via da una lettera, rotolano fuori da una foglia di cavolo farcito, escono da una scatola di prodotti farmaceutici. In breve, uno di quei regali di cui non mi stanco.”
In Marie-Claire informa le lettrici sul modo corretto di raccogliere e di conservare le viole, per farne delle tisane o per cristallizzarne i petali nello sciroppo di zucchero.
“Casalinghe econome, che raccogliete al momento giusto i fiori e le foglie medicinali, sapete perché la vostra tisana di violette è insipida? Perché avete raccolto le violette al sole. Raccoglietele all’ombra, nei primi giorni della loro stagione, senza gambi, e fatele seccare all’ombra, su una carta bianca e non su un tovagliolo. Da noi si dice che la biancheria ‘beve il profumo’. Diffidate della fredda tavola di marmo perché ‘sorprende’ i vostri fiori tiepidi, li accartoccia e toglie loro una parte di anima.” Ancora una volta, viene sottolineata l’importanza dei dettagli, delle piccole cose, dentro le quali c’è tutta la saggezza e l’arte di vivere della grande gourmande.